GLI AFFRESCHI NASCOSTI DEL CASTELLO DEI CAVALIERI A RODI

Dal 1° ottobre 2014 la Galleria del Laocoonte di Roma presenta un importante nucleo di opere di Pietro Gaudenzi (Genova 1880 – Anticoli Corrado 1955).

Si tratta di una decina di cartoni preparatori per affreschi, grandi al vero e colorati a pastello, altrettanti disegni e bozzetti e una tavola a olio, tutti preliminari ad una grande opera realizzata nell’estate del 1939: gli affreschi di due ambienti del monumentale Castello dei Cavalieri a Rodi, la Sala del Pane e la Sala della Famiglia. I due cicli costituiscono una delle opere estreme dell’arte del Ventennio, diversa per lirica astrazione da tanto brutale muralismo di propaganda.

Il progetto nacque per il più ridente angolo del nostro effimero Impero coloniale, l’incantevole isola di Rodi, sede del Governatorato italiano del Dodecanneso dal 1912 al 1943. Il fascismo aveva modernizzato Rodi eleggendola a vetrina turistica e paragone d’eccellenza architettonica e urbanistica sotto il governatorato di Mario Lago, che fu capace di armonizzare la presenza italiana con le comunità greca, turca ed ebraica sefardita, che concorrevano alla delicata miscela culturale dell’Isola delle Rose.

Nel 1936 però venne nominato Governatore di Rodi Cesare Maria De Vecchi. Retorico, megalomane, autoritario e intollerante laddove il suo predecessore era stato pratico, prudente, razionale e liberale, De Vecchi elesse a sua maggiore impresa la ricostruzione del Castello dei Cavalieri di Rodi. 

Già fortezza bizantina, il castello fu costruito dall’Ordine dei Cavalieri di San Giovanni che dovettero abbandonare l’isola ai Turchi nel 1522. Nel 1856 era stato distrutto dall’esplosione accidentale di una polveriera e adattato a carcere. Lago avrebbe voluto restaurarlo per valorizzarlo come “superbo rudere”, De Vecchi invece volle ricostruirlo completamente, ottenendo un castello nuovo, quasi un fondale operistico o una scenografia cinematografica in cui ci si sorprende a toccare vera pietra e non cartone. L’ambiziosa opera, portata a termine in soli tre anni, costò 30 milioni di lire d’allora. Cinquecento tagliapietre e scalpellini furono fatti venire dalla Puglia, squadre di mosaicisti da Firenze e da Venezia per restaurare e mettere in opera nei pavimenti gli antichi mosaici trovati negli scavi archeologici di Kos. L’effetto è maestoso e straniante, gli inglesi che occuparono l’isola fino al ’47 lo descrissero come a fascist folly, oggi è il monumento più visitato di tutta Rodi. 

Gli affreschi di Gaudenzi, documentati da foto d’epoca e da un cinegiornale Luce, si trovavano al secondo piano, in sale oggi escluse dalla visita. In tempi recenti nessuno li ha visti. A molti che hanno cercato di visitare quelle sale è stato opposto un inspiegabile rifiuto. Un testimone attendibile, il figlio di Pietro Gaudenzi, Jacopo, racconta di essere stato in quelle sale che egli, bambino di dieci anni, vide affrescare dal padre, ma di averle trovate, dietro cortinaggi di stoffa, dipinte di bianco. 

 

Ricercare la verità sul destino di quegli affreschi è un impegno che la Galleria del Laocoonte prende a cuore, e  se fosse vero che essi siano stati soltanto scialbati sotto una mano di bianco, far di tutto per promuovere un restauro che li riporti alla luce dei giorni nostri. 

Intanto vengono presentati i cartoni a pastello, straordinari per delicatezza di tocco, che servirono alla loro realizzazione. Sono figure prese dalla vita, nelle umili occupazioni quotidiane nelle strade e nelle campagne di Anticoli Corrado. Guardando la mola di Anticoli, la Semina, la mietitura, le donne che portano il pane su vassoi o allineato su una tavola portata in equilibrio sul capo, la splendida donna con la pagnotta infiorata o la giovane con un fascio di spighe, non si può non ricordare la retorica della mussoliniana “battaglia del grano”, ma le figure di Gaudenzi – che pure sul tema vincerà anche, con un suo trittico dipinto, echeggiante gli affreschi di Rodi, il premio Cremona nel 1940 – sembrano imperturbabili, nella fissità delle loro consuetudini millenarie e immutabili, all’enfasi trionfalistica del momento. 

Ancora più atemporali sono i cartoni e le figure della sala della famiglia: una Visitazione e la grande Natività. Lo sposalizio, o meglio il banchetto di nozze è invece il soggetto di una grande tavola dipinta ad olio che però potremmo definire piccolo bozzetto, se pensiamo al precedente “Sposalizio”, di cui il nostro è un eco, che Gaudenzi presentò alla biennale di Venezia del 1932: era alto due metri e mezzo e lungo sette metri. Fu pagato 130mila lire e acquistato dal Senatore Borletti di Milano. Di quest’opera capitale nella poetica di Gaudenzi in galleria sarà mostrata su uno schermo la documentazione fotografica, in scatti d’epoca in bianco e nero. Tanto l’aveva cara che egli la replicherà, e non certo per pigrizia, in una delle pareti della Sala della famiglia a Rodi. Nozze di Canaa senza miracolo, o pranzo nuziale di Maria e Giuseppe se avessero potuto permetterselo, Gaudenzi presenta la festa con la ieraticità di una storia sacra. 

Schivo, taciturno creatore di un mondo e di un’umanità incantata in cui i modelli contadini, da lui ritratti dal vero nel paese di Anticoli Corrado, che egli elesse ad Arcadia personale, sono trasfigurati per grazia poetica, tanto che l’umano e il divino si confondano: così in Gaudenzi una Sacra Famiglia diventa una famiglia, una Visitazione una visita tra comari, uno Sposalizio un semplice banchetto di nozze, senza che il senso del sacro venga meno, ma senza che questo tradisca il senso del vero. È la bellezza dell’umiltà della leggenda cristiana, tante volte meravigliosamente vestita in pittura, che Gaudenzi ha saputo riportare come declinazione purista del Novecento italiano. Con semplicità e finezza sincere.

 

Quando dal 1 ottobre 2014. Mar_sab. 10:00/13:00 – 15:30/19:00.

Dove Galleria del Laocoonte, Via Monterone 13, Roma. 

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