Aurelio Galfetti ci ha lasciati. Nel dispiacere che condivido con la redazione di IoArch e con moltissimi altri, mi piacerebbe ricordarlo, consapevole della modestia di questa testimonianza.
Il mio primo incontro con Galfetti fu da studente, in un seminario di progettazione estivo. Rimasi incantato dalla sua presentazione del progetto di concorso per il centro culturale di Noumea. Era arrivato secondo: cosa che, senza nasconderlo, tollerava a stento. E anche a me sembrò un grandissimo torto.
Fece una revisione al mio progetto, quelle tipiche revisioni da seminario: me lo demolì. Aveva ragione.
Negli anni che seguirono lo incontrai in diverse occasioni, ma sempre fugacemente, finché un pomeriggio, in occasione di un’intervista per IoArch, decise di venire a trovarmi nel mio studio a Milano. Il tutto si convertì in una lunga e libera chiacchierata dove rimasi colpito dalla sua acuta semplicità, dal suo buonsenso, dal suo spirito di sognatore pragmatico. Pubblicammo l’intervista. Mi chiamo apposta per dirmi che gli era piaciuta moltissimo. Per fortuna, pensando al seminario di qualche anno prima, avevo fatto qualche progresso. In seguito, ormai convertitomi in uno dei suoi fan più accaniti, non perdevo occasione per coinvolgerlo con contributi grandi e piccoli. Era un punto di riferimento, ci mancherà.
Carlo Ezechieli
Ripubblicare quell’intervista, ormai di molti anni fa, è il nostro semplice modo per ricordarlo.
Da IoArchitetto n. 29, novembre/dicembre 2009
La logica del progetto
“Alla fine l’architettura segue principi come la fisica, l’ecologia, anche l’economia, che credo siano abbastanza ineludibili ed eterni”
Maestro indiscusso dell’architettura contemporanea, Aurelio Galfetti ha influenzato un paio di generazioni di architetti di tutto il mondo. Autore di opere celeberrime, come il Castel Grande di Bellinzona o il più recente Net Center di Padova, in questa intervista ci espone un punto di vista prezioso per riequilibrare atteggiamenti attualmente sempre più ricorrenti, ma spesso troppo facili, di rifiuto della modernità e la sua opinione circa l’architettura e il restauro.
Architetto Galfetti, quali sono le caratteristiche principali del suo lavoro?
Il mio mestiere è quello dell’architetto, il mio obiettivo fondamentale è quello di progettare lo spazio per la vita dell’uomo, per le sue esigenze. Cerco di costruire spazi a varie scale e dimensioni e non credo a una netta distinzione tra architettura e urbanistica, come non credo nella ripartizione in ambiti di competenza specifica come restauratore, paesaggista, o progettista di talune categorie di edifici, proprio perché l’obiettivo rimane sempre e comunque il controllo architettonico dello spazio.
Non crede quindi nella figura dell’architetto specializzato?
Ovviamente una certa specializzazione è necessaria, ma il mio approccio è sempre quello della collaborazione interdisciplinare finalizzata al raggiungimento di un obiettivo comune. In molti casi il mio lavoro richiede necessariamente la collaborazione di esperti ma non credo al progetto di uno spazio come semplice sommatoria di competenze.
Come si sviluppa il suo lavoro? Quali sono i passi principali e quali gli strumenti?
Non riesco a organizzare un lavoro senza una conoscenza approfondita del contesto. Per me è fondamentale la percezione della spazialità, delle dimensioni, delle direzioni e degli orientamenti, di aspetti come l’apertura, la spazialità naturale e geografica. Seguo sempre un’idea di movimento, per usare un termine aulico, una dimensione spazio-temporale. Immagino di abitare un luogo muovendomi al suo interno e materializzandone i percorsi. Come ad esempio nel Castello di Bellinzona che da fortezza impenetrabile è diventata un percorso. Infine, più e prima che del programma mi interesso del tema, ponendomi la domanda: che cos’è questo spazio? Cosa significa? Come lo abito?
Quali pensa siano le caratteristiche fondamentali di un’ottima, o di una grande, opera di architettura?
Credo sia realizzare uno spazio che susciti delle emozioni, che stimoli una partecipazione ed identificazione spontanea, che diventi fonte di ispirazione. Molto dipende anche dal corretto controllo dalla luce lungo un percorso. Il tutto diventa reale quando è sorretto da una struttura e quando ogni aspetto è riconducibile ad una logica costruttiva.
Quali sono le sue principali fonti di ispirazione?
Ho sempre avuto un maestro principale, forse uno solo, che è Le Corbusier. Di lui, tra le altre cose, mi piace molto l’idea di non scindere mai architettura e urbanistica. La mia formazione è stata poi quella di un tipico razionalista tedesco, quando ho studiato a Zurigo negli anni Cinquanta. La mia influenza e ispirazione è sempre stata l’architettura moderna, anche se negli anni 1970-1975 ho avuto un inevitabile momento post-modernista, che ho infine abbandonato nel 1980, quando ho progettato il restauro del Castello di Bellinzona, a favore di un deciso ritorno al Moderno.
Una delle sue opere più famose è stato proprio quel notevole restauro. Qual è il suo orientamento rispetto a temi come restauro, conservazione o demolizione?
Nel Castello di Bellinzona la mia intenzione era quella di continuare un processo di trasformazione lungo 6000 anni e che aveva avuto origine in quel luogo ancora in epoca neolitica. Invece di ‘mummificare’ ho pensato, senza cancellare nulla, di adattare la struttura a nuove esigenze come del resto avevano fatto tutti i miei predecessori. Avevo coniato uno slogan, talvolta scatenando dibattiti piuttosto accesi, che era “conservare uguale trasformare”. Non si può ricostruire il passato tale e quale, tant’è che la prima cosa che se ne va, anche riproducendo fedelmente le tecnologie d’epoca, è la patina. La rocca dove si trova il Castello è stata plasmata in milioni di anni dalla forza dei ghiacciai, l’ho spogliata della vegetazione per farla emergere come fosse una scultura e l’ho scavata per rivelarne la genesi. Infine, da luogo di segregazione-inclusione difensiva di quando era una fortezza, è stato trasformato in uno spazio pubblico, di fatto in un giardino: una situazione dove, ovviamente, è impossibile mantenere la situazione esistente.
Dal Castello di Bellinzona al Net Center di Padova. Cosa secondo lei è più nel suo modo di fare architettura?
Ho l’impressione di aver fatto sempre più o meno la stessa cosa. Ho sempre ricercato uno spazio piacevole stabilendo dei rapporti con il luogo in cui intervengo. Nel castello di Bellinzona volevo rivelare la storia e le glaciazioni, nel Net Center invece volevo creare uno spazio pubblico in una situazione di periferia. Non potrei qualificarlo come una piazza dato che molte sue caratteristiche non corrispondono alla mia idea di piazza, ma è uno spazio pubblico moderno, con un segno forte che è la torre.
È interessante il modo in cui inquadra il tema dello spazio pubblico odierno
Come in passato, una piazza è uno spazio aperto accessibile al pubblico, ma credo che oggi abbia o debba avere una maggiore continuità con ciò che gli sta attorno. Del resto Wright ancora alla fine dell’800 aveva rotto la ‘scatola’ muraria permettendo allo spazio esterno di fluire all’interno dell’edificio e viceversa. Lo spazio generato dalla meccanizzazione è uno spazio pubblico fondamentalmente continuo e la città contemporanea è una città fluida e continua. I limiti sono necessari per definire le caratteristiche di un luogo ma trovo la città attuale un tutto in comunicazione dove i limiti si rompono e lo spazio diventa liquido.
Nella sua pluridecennale carriera sono cambiate diverse cose. Alcune interessanti, altre meno. Qual è il suo punto di vista?
Anche qui mi riferisco alla mia esperienza di progetto. La torre del Net Center asseconda in parte una tendenza alla deformazione e alla trasgressione della verticale, che in questo momento è abbastanza alla moda. La pianta è rettangolare, 4 pilastri sono fissi e verticali e 4 sono inclinati. La deformazione dei piani nel mio caso dipende da una sequenza e da un concetto di spazio generato dal movimento e segue una logica profondamente strutturale. Anche la torre di Pisa è storta, ma perché anche la sua struttura è storta. Ho insomma preferito definire un concetto di spazio ancorandolo ad una logica strutturale e a principi costruttivi logici anziché piegando lamiere. Alla fine, l’architettura segue principi come la fisica, l’ecologia, anche l’economia, che credo siano abbastanza ineludibili ed eterni.
Per l’appunto, si parla molto di ecologia. Tanto che le targhe di ‘sostenibilita’ ormai si sprecano. Come vede la questione in architettura?
Tener conto dell’ecologia è una necessità oltre che un dovere. Penso però che sarebbe una perdita enorme se per fare una costruzione ‘ecologica’ dovessi ritornare ed edifici costruiti in pisé o con il tetto di paglia con la stessa architettura di 300 anni fa. O se per via di motivazioni ‘ecologiche’ fossi obbligato a costruire un involucro chiuso, con le finestre necessariamente posizionate e proporzionate come in una casa tradizionale. Credo che il concetto di spazio che abbiamo acquisito con la Modernità sia una conquista e un valore che sarebbe un peccato buttare via insieme alle ricadute negative del ‘progresso’: un termine che ormai non viene nominato volentieri ma che comunque coincide, o ha coinciso, con un notevole balzo in avanti.