Con piú di trentacinque anni di lavoro dedicati con continuitá alla documentazione della cittá e del paesaggio urbano, Gabriele Basilico é oggi uno dei protagonisti internazionali della fotografia di architettura. Una formazione da architetto avvenuta tra la fine degli anni Sessanta e l´inizio dei Settanta, quando gli studenti erano piú coinvolti in questioni legate alla trasformazione radicale della societá che su temi prettamente architettonici. Per testimoniare il mutamento sociale Basilico sceglie lo strumento fotografico con scatti quasi esclusivamente in bianco/nero. Milanese, il suo primo progetto é ?Milano ritratti di fabbriche 1978-80?, un lavoro minuzioso che descrive e reinterpreta la periferia industriale milanese, esposto per la prima volta nel 1983 al Padiglione di Arte contemporanea di Milano. Milano é la palestra dove ha fatto esperienza nel tempo e dove ha recentemente realizzato una mostra a cielo aperto lungo un chilometro di recinzioni del cantiere Garibaldi – Porta Nuova, offrendo ai milanesi un racconto dei cambiamenti della sua cittá. Lo abbiamo intervistato.
In questi anni lei si é trovato a documentare cittá e paesaggi in tutto il mondo. Le cittá stanno subendo un irrefrenabile sviluppo e alcuni suoi progetti fotografici sono in grado di restituirci un mondo che ormai non esiste piú. Dalla sua attenta indagine sulle cittá, quali obiettivi pone oggi alla base dei suoi progetti fotografici? Che cosa ricerca nei suoi scatti al fine di restituire dignitá e identitá ai luoghi protagonisti nei suoi lavori?
Bisogna distinguere tra lavori per una committenza precisa in cui cerco di leggere lo spazio, interno o esterno, vicino o lontano, con la luce giusta, in funzione delle esigenze dell´architettura, e lavori nel paesaggio urbano, in cui sono libero di scrivere una storia di cittá, dove uso altri tipi di convenzioni. Innanzitutto mi informo e cerco di circoscrivere il tema. Va trovato il soggetto e settorializzato, e, piú il tempo passa piú é difficile. Ad esempio, il territorio che riguarda la trasformazione, dove la cittá muta la pelle e si ricompone: questi spesso sono gli elementi morfologici urbani che mi interessano.
Ho appena fatto un lavoro a Mosca intitolato ?Mosca verticale? che sará esposto il 14 ottobre a Milano allo Spazio Oberdan. Normalmente lavoro a livello stradale, mentre questo lavoro racconta la cittá vista dall´alto e in verticale, osservandola nel suo complesso dai grattacieli di Stalin.
Che ruolo assume la sua fotografia nella definizione dei nuovi scenari delle trasformazioni urbane?
Ha una doppia funzione. Quando fotografo é come se lanciassi dei tratteggi di sguardi e cercassi punti in cui trovare un equilibrio armonico. La fotografia deve essere da un lato una testimonianza di nuove identitá e dall´altro un modo personale di leggere e di rapportarsi con queste identitá.
Le figure umane sono raramente presenti nei suoi scatti e quando ci sono assumono forme spettrali. Quali sono le ragioni legate alla scelta di svuotare gli spazi che fotografa?
E´ vero, nei miei lavori la figura umana é pressoché assente. Questo nel rispetto di una storia della fotografia e per dare allo spazio il valore di protagonista. Oggi viviamo in un territorio molto complesso e la mancanza della figura umana é una sorta di alienazione che permette di entrare in contatto fisiognomico con lo spazio.
Su quali progetti fotografici sta lavorando oggi e quali i progetti per il futuro?
Un nuovo progetto é un lavoro in Spagna su un tratto di costa, che ho definito alcuni giorni fa con un consulente a Parigi, tra Bilbao e il confine con la Francia: un viaggio nei Paesi Baschi che fa parte di un progetto collettivo. E poi mi é stato recentemente chiesto di ritornare a Beirut (ricordiamo la mostra Basilico Beyrouth del 1994, NdR), nel quartiere di Solidere. Molti altri lavori partiranno l´anno prossimo.