Le acque vanno e vengono, la sabbia rimane, dice un proverbio georgiano. Ed è con la sabbia e con il fango scuro prelevati dalle sponde del bacino idroelettrico di Zhinvali – completato nel 1985 ma progettato negli anni Sessanta del Novecento, quando la formula di Lenin ‘Comunismo = Soviet + elettrificazione’ governava ancora la pianificazione economica dell’Unione Sovietica – che sono stati fabbricati i mattoni che coprono quasi per intero il padiglione della Georgia alla Biennale di Architettura di Venezia.
January February March, questo il nome dell’installazione curata dalla Biennale di Architettura di Tbilisi, che fa riferimento ai mesi nei quali i bacini idrici del Paese sono colmi, occupa lo spazio del Giardino Bianco Art Space di via Garibaldi a Venezia e invita a una riflessione sull’acqua, una risorsa di cui storicamente la Georgia è ricca, sulla sua trasformazione da bene comune in commodity privatizzata e sull’impatto che tale trasformazione ha sull’ambiente e sulle comunità.
Al centro del padiglione, costruito con gli stessi mattoni scuri che ricoprono lo spazio, il volume voltato della chiesa di Jvaripatiosani, la ricostruzione dell’assenza della chiesa, sommersa dalle acque del bacino idroelettrico, utilizzate per la produzione di energia elettrica della capitale Tbilisi e a servizio delle colture agricole.
Quando il livello scende diventa evidente l’impatto sul territorio: un intero villaggio sommerso – e nella mostra un film documenta anche le proteste durate più di un anno contro un altro impianto idroelettrico, la cui costruzione comporterà l’inondazione dell’intera regione di Lechkhumi – e la scomparsa di ogni forma di vita animale e vegetale.
Un tempo la Georgia aveva l’inviabile primato dell’autonomia energetica da fonti rinnovabili – l’idroelettrico appunto. Oggi non è più così perché agli alti costi infrastrutturali delle dighe si è preferita la più economica produzione di energia da centrali termiche, che a sua volta solleva però inquietanti interrogativi sulla sicurezza geopolitica, resi evidenti dall’aggressione russa all’Ucraina, ma il punto, secondo i curatori del padiglione, è un altro.
In passato l’acqua era un bene comune, le popolazioni ne facevano uso – con i mulini, con l’irrigazione – e la restituivano al suo corso naturale. Le grandi infrastrutture intervengono invece modificando l’ambiente in maniera irreversibile, deprivando i territori della loro ricchezza naturale, frutto della convivenza tra l’ecosistema e le attività umane.
Questo avveniva in epoca sovietica e avviene oggi, con la privatizzazione dei beni statali e con la trasformazione dei beni comuni in strumenti di profitto a vantaggio di pochi.
Con contributi multidisciplinari il catalogo di January February March documenta in maniera approfondita la ricerca svolta dai curatori Gigi Shukakidze, Tinatin Gurgenidze e Otar Nemsadze, compreso un aspetto fondamentale ma poco esplorato dai media: l’industria delle criptovalute, che in Georgia ha uno dei suoi centri mondiali e che consuma enormi quantità di energia elettrica per alimentare i server dediti al ‘mining’ dei bitcoin.
La trasformazione finale dell’ambiente in ‘valore economico’. Non sarà per caso questo il Laboratorio del Futuro?