Lequarantaeunanotte, puntate 1-10

#lequarantaeunanotte è l´appuntamento di IoArch per questo periodo di confinamento forzato: fino al 4 maggio, un´architettura che ci è impedito tornare a visitare per ogni giorno di quarantena. Sperandeo che, se non il 4 maggio, potremo presto tornare, novelli ragazzi della Via Gluck, “a piedi nudi a giocare nei prati”.

Qui il riassunto delle prime 10 puntate.

 

22 aprile 2020. Le mille e una pietra

 

“I conquistatori dell’inutile” è il titolo di un bel libro scritto quasi sessant’anni fa da Lionel Terray, grande alpinista e il primo uomo a raggiungere la vetta del Fitz Roy, in Patagonia. Terray era uno strano tipo. Cresciuto in una famiglia alto borghese di Grenoble fu, oltre che alpinista, campione di sci, contadino montanaro e partigiano. Il fatto di essere un asino a scuola non gli impedì di imparare e di pensare, fino a comporre un libro dal titolo così interessante … soprattutto in questi giorni, in cui farsi domande sull’utilità di molti lavori, compreso il proprio, viene del tutto spontaneo. 

Abbiamo visto che i medici e gli infermieri sono indispensabili, come del resto gli addetti ai servizi di manutenzione, alla nettezza urbana e alla filiera alimentare. Come Terray, ho tuttavia buone ragioni per temere che in questa categoria, non rientrino moltissimi altri lavori “nel nostro disorganizzato a sovrappopolato mondo”.

Ma allora qual è il senso di fare professioni faticose, pericolose e fondamentalmente inutili, come ad esempio l’alpinista, l’atleta, l’artista, o l’architetto?

L’attitudine più salutare, e per fortuna più diffusa, è quella di dedicarsi a un lavoro e basta, prendere lo stipendio e non farsi troppe domande. Ma dedicarsi a un lavoro inutile inevitabilmente qualche domanda la pone. Ho cercato dunque una risposta e l’idea che mi sono fatto finora è questa. È dimostrato che un carattere che distingue l’essere umano da molti altri animali è la capacità, non solo di creare realtà immaginarie – più o meno bacate, dipende tutto dai principi di partenza – ma anche di trasformarle in racconti collettivi che forniscono la base di interi modelli di organizzazione. Il denaro ad esempio, è probabilmente una delle nostre principali invenzioni, volendo un’ideologia, e come noto ha un potere immenso. 

In conclusione, il mondo ha bisogno di tutti questi architetti? Credo proprio di no. Il mondo ha bisogno di gente pensante che sappia sviluppare idee e che eventualmente possa tradurle in spazi abitati. Decisamente sì, e questi non saranno mai abbastanza. 

Parlando di opere e di storia dell’architettura, la stragrande maggioranza dei più amati e celebrati capolavori non sono nient’altro che l’espressione di queste grandi idee. L’architettura risponde a esigenze pratiche tanto quanto è capace di trasportare in un mondo differente. E a ben vedere, l’elenco di capolavori la cui utilità pratica è pressoché nulla è quasi infinito. Quanto sono sinceramente utili le Piramidi di Giza, la Piazza dei Miracoli di Pisa, le torri di San Gimignano o i moderni grattacieli, se non per rappresentare un’idea? 

E solo per selezionarne uno tra migliaia, uno dei monumenti più grandiosamente inutili ed emozionanti che mi sia mai capitato di visitare sono gli allineamenti di monoliti di Kermario in Bretagna.

 

Il sito si trova nell’ambito di una regione, con epicentro il villaggio di Carnac, caratterizzata da una grande concentrazione di installazioni, dette anche menhir, risalenti al neolitico e pertanto a 5.000-6.500 anni fa. 

Tra questi l’allineamento di Kermario è uno dei più imponenti. Il fascino archeologico è uno dei motivi principali di visita, ma è incredibile che questa grezza composizione di 1.029 massi di granito, appena sbozzati – che disposti su dieci linee, si estendono nella campagna per oltre un chilometro, perdendosi alla vista – risulti, al di là di qualsiasi mediazione intellettuale, emozionante.

 

Le dimensioni contano, i menhir principali sono alti circa 5 metri, ma questo in fondo è niente rispetto alla capacità dei mezzi moderni di movimentare massi di dimensioni anche maggiori.

Più probabilmente ciò che impressiona di più è cogliere, a livello istintivo, il risultato di un’organizzazione formidabile. Né più né meno come è tanto straordinario assistere a 100 danzatori che si muovono in perfetta sincronia, quanto è banale vedere 100 schermi televisivi che moltiplicano la danza di uno solo.

Cosa abbia spinto queste popolazioni antichissime a compiere sforzi immani per realizzare un’opera completamente priva di utilità e il cui significato è per noi imperscrutabile, rimane un mistero. Quella che resta certa è la meraviglia per un’idea che ha saputo smuovere, per chilometri, massi ciclopici a migliaia.

Carlo Ezechieli

   
 

video (© HD Drone Herve Lejoux)

 

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21 aprile 2020. Certame delle nevi in pianura

 

Qualche giorno fa un mio amico, coach esperto in formazione aziendale, mi chiese di contribuire a una bellissima raccolta, in verità un po’ controtendenza, di pensieri e fatti positivi emersi durante la quarantena. Risposi senza pensarci troppo dicendo che per me una cosa positiva era la netta percezione, di certo più una sensazione che un ragionamento, di respirare. Una considerazione a dire il vero paradossale, dato che questo virus inibisce in modo critico, talvolta fatale, proprio la possibilità di farlo. 

Eppure – essendo il Covid-19 all’origine del blocco forzato delle nostre attività e di tutti i loro veleni – inaspettatamente, ha contribuito a rendere l’aria un po’ più pura e la respirazione migliore. E mentre l’atmosfera diventa più limpida, emergono suoni, luci, visuali che prima, sovrastate da mille rumori molesti, sfuggivano del tutto. In termini pratici è una sorta di pranayama h24. Una strana lieve, ma prolungata, condizione di respiro consapevole,  con cui forse qualcun altro si può identificare, e che ci fa capire non solo quanto il nostro respiro dipenda da tutto ciò che si trova intorno a noi, ma anche quanto i nostri polmoni siano collegati a milioni di altri senza i quali, molto semplicemente, soffochiamo.

 

Ed è proprio la storia di un polmone verde quella che voglio raccontare. Si tratta di un luogo, o meglio, di un’opera che nel tempo, e soprattutto negli ultimi tempi, grazie anche a un altro coach e ai suoi adepti, ho imparato ad apprezzare.  Non è un edificio, bensì una collina artificiale: il Monte Stella, che i milanesi chiamano anche “La montagnetta”. 

Normalmente gli alpigiani, come me, la liquidano come un patetico simulacro di una montagna vera. Gli abitanti della provincia, forse memori del suo travagliato passato, ancora la considerano poco più che un luogo da evitare. Preconcetti ovviamente, che offuscano e rendono banale il senso non solo di una delle più ampie e frequentate aree verdi della città, ma anche di uno dei suoi principali e più eroici monumenti. 

Del Monte Stella tutti conosciamo la storia. È una collina artificiale costruita con le macerie dei bombardamenti che, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, si era deciso frettolosamente di depositare nei pressi di San Siro, in quella che allora era una delle più grosse cave di Milano. 

Solo nel 1949 all’architetto Piero Bottoni, uno dei più influenti della Milano dell’epoca, venne l’idea di farne una vera a propria montagna, che poi dedicò alla moglie Stella Sas Korczynska, notevole artista polacca, deceduta nel 1956 quando Bottoni aveva solo 43 anni.

Il Monte Stella negli anni Sessanta

 

Se l’umile origine da una discarica accomuna di tutti i parchi più belli e amati del mondo, anche il Monte Stella seguì un simile e tortuoso itinerario. Dopo un lungo utilizzo come vera e propria discarica, fu solo verso la fine degli anni ‘70 che vennero piantati circa 600 alberi, ponendo finalmente le basi per il Parco che conosciamo oggi, che non tardò a manifestare la sua predisposizione per gli sport.

Precorrendo di decenni l’Amager Bakke – pista di sci sul tetto di un termovalorizzatore a firma dell’architetto Bjarke Ingels inaugurata a Copenhagen nel 2019 – per tre inverni consecutivi, a partire dal 1982, sulla Montagnetta era presente un piccolo impianto di risalita con una pista da sci di circa 250 metri. Ed era sede di certami sciistici che, in un’occasione, videro un giovanissimo Alberto Tomba vincere in slalom parallelo su Robert Erlacher. 

 

Ma ciò che più conta è che con il progetto del Monte Stella sia scoccata la scintilla dell’immaginazione, e che questa sia stata sostenuta dal coraggio e dalla tenacia di una visione collettiva che ha portato all’opera che oggi, non solo respira con noi ma anche, silenziosamente, ricorda un evento epocale. 

Come disse una volta Aldo Rossi, Premio Pritzker nel 1990, «Il Monte Stella è una grande architettura», e credo anche un insegnamento che dovremmo tenere ben presente.

Carlo Ezechieli

   
 

video (courtesy Sentieri Metropolitani)

 

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20 aprile 2020. La storia del mostro e il segreto della sua bellezza


La globalizzazione è la condizione nella quale non solo abbiamo vissuto, ma siamo anche cresciuti. Pensavamo di non avere limiti, di vivere in un mondo ridotto a una specie di città e invece è stata proprio questa condizione che ha permesso al Covid-19 di diffondersi alla velocità del suono. Per la precisione al rombo di un jet di linea. Il risultato è che siamo finiti tutti chiusi in casa. I nostri orizzonti si sono ridimensionati, l’internet è diventato il nostro unico accesso al mondo esterno, e nel giro di qualche settimana le attività in remoto hanno avuto un impulso formidabile e irreversibile.

Con ogni probabilità, il nostro modo di muoverci verrà trasformato per sempre. Cantavamo il trionfo del villaggio globale, ma se fermiamo le macchine che ci permettono di superare le grandi distanze torniamo ad essere i soliti bipedi di sempre. 

Spaesati, ma forse ancora capaci di recuperare il senso dell’effettiva vastità degli spazi di cui noi, uomini schizoidi del XXI secolo, dai sensi storditi, abbiamo finito per perdere qualsiasi incanto. 

Questi sono alcuni dei motivi per cui è ancora più piacevole scoprire luoghi dove questo senso di meraviglia, invece che essere sovrastato dal frastuono, viene aumentato.

Hotel Las Brisas, foto ©Carlo Ezechieli

 

Proprio come quando, dopo aver attraversato una sequenza di spazi composta in modo del tutto magistrale, mi trovai improvvisamente davanti la vastità dell’Oceano Pacifico. Una distesa blu che, vista dall’alto, sembrava ancora più infinita, contrastata da un pavimento più o meno dello stesso colore della bouganvillea: un accostamento improbabile, ma meraviglioso.

L’opera in questione era l’Hotel Las Brisas (in origine Camino Royal) di Ixtapa Zihuatanejo in Messico.

©Google Earth

 

Completato nel 1981 su progetto del grande architetto Ricardo Legorreta, si tratta di un complesso effettivamente fuori scala rispetto alla spiaggia sottostante, tanto da potersi meritare la disonorevole etichetta di “ecomostro”. 

È una costruzione enorme, pensata secondo la stessa logica di “self-contained city”, una città contenuta all’interno di uno stesso edificio, tipica di molte visioni, sempre rimaste sulla carta ma molto presenti nelle fantasie degli architetti negli anni 1970.

©Studio Legorreta

 

Nei rari casi in cui furono realizzate, le megastrutture si rivelarono spesso dei bidoni colossali: tanto astratte e inabilitabili da dare origine a veri e propri disastri che talvolta – come nel caso di “Er chilometro” di Roma – assunsero un’aura leggendaria. Eppure, l’hotel di Legorreta è un’opera incredibile, non solo per la qualità degli spazi e per il loro contatto costante e assoluto con l’Oceano, ma anche perché ha dimostrato la possibilità di rompere il sortilegio che rendeva sistematicamente le megastrutture dei mostri orrendi. 

Alto 10 piani, sviluppato su un’area complessiva di 4,2 ettari, l’equivalente di sei campi di calcio, è una superficie interamente “cementificata” adagiata su una superficie scoscesa rivolta all’oceano.

©Studio Legorreta

 

Le sue proporzioni, specialmente l’atrio d’ingresso, alto una quindicina di metri, ricordano molto quelle dei grandi monumenti preispanici. E i colori, l’ocra, combinato con il rosa, il blu e il magenta, sono quelli tipici dell’architettura tradizionale. 

 

Malgrado l’imponenza, l’idea di compattare un intero insediamento in un’unica struttura ha permesso che questa fosse circondata da un giardino meraviglioso.

Come dice Kenneth Frampton, l’hotel Las Brisas non è una megastruttura ma una “megaforma”, ovvero una costruzione unitaria che invece di atterrare nel paesaggio come un’astronave, dialoga con quest’ultimo e riesce nel difficile intento di restituire senso pratico e bellezza a spazi altrimenti inabitabili. Forse è proprio questo, il segreto per trasformare una colata di cemento, potenzialmente catastrofica, in un’opera straordinaria.

Carlo Ezechieli

 

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17 aprile 2020. Monumenti pericolosi, seconda parte


Sulla Upståndelsekappelet di Sigurd Lewerentz non è mai stato scritto né detto niente.

Forse fin troppo stramba, sgraziata, incomprensibile, insomma un potenziale pasticcio. Anche se, dopo aver conosciuto altre opere dello stesso autore, compresa la chiesa di San Marco a Björkhagen, Stoccolma, un capolavoro assoluto, e aver passato un’intera serata a parlarne con ottimi e cari compagni di viaggio, mi prenderò la briga, il rischio e, come le comari del paesino di De André, “… di certo il gusto” di parlarne.

Le sue dimensioni sono ragguardevoli: è uno spazio lungo una ventina di metri, largo circa 8 e alto circa 13, e pertanto una sezione trasversale con proporzioni che corrispondono ad un rettangolo aureo. Si accede da un ingresso colonnato laterale: a sorpresa, dato che la pianta è assolutamente centrale simmetrica. Ed entrando, lo spettacolo è disorientante. È uno spazio bianco, straordinariamente vuoto, con un soffitto a cassettoni decorato con motivi vegetali di ispirazione neoclassica.

Sigurd Lewerentz, interno della Upståndelsekappelet

La luce entra di lato da un’ampia finestra con le stesse modanature e cornicioni presenti sulla facciata del palazzo del Reale, in centro a Stoccolma, ma che qui vengono ribaltate all’interno. E sono presenti simboli di ogni tipo: da una croce cristiana, alle menorah, i candelabri a sette braccia della religione ebraica, e al centro, sotto un catafalco di marmo bianco con colonne corinzie, si trova un altare rosso a sei gambe (sei gambe?).

Come raccontava il protagonista del film American Beauty – in una sequenza cinematografica da far male a guardarla tanto è bella – si dice che in punto di morte tutta la vita ci passi davanti, concentrandosi in un secondo. Forse questa concentrazione, nel caso specifico un’accozzaglia, di riferimenti è proprio ciò che Lewerentz stava cercando.

Con un risultato tremendamente simile alla scena finale di un altro film, “Odissea nello Spazio” di Stanley Kubrick, dove il protagonista, dopo un viaggio allucinante attraverso una specie di wormhole si ritrova – simultaneamente adulto in scafandro spaziale, anziano sul letto di morte e bambino in gestazione – in un interno bianco, a riquadri, di impronta metafisica.

Frame da Odissea nello spazio, ©Stanley Kubrick/MGM

 

La Upståndelsekappelet sembra insomma incorporare ed esprimere, forse in modo confuso, i principi di sensorialità illusoria, di transitorietà, di impermanenza, di consapevolezza, di stati alternati di coscienza, propri delle filosofie orientali e tradotti in modo così straordinario nel progetto del Cimitero nella Foresta, dov’è situata. Ma sono solo ipotesi. Cosa abbia portato veramente Lewerentz a realizzare un’opera del genere in realtà nessuno lo sa, né mai lo si saprà. 

Quello che invece è noto è che l’autore fu talmente ossessionato da quest’opera da lavorarci continuamente, cambiando spesso i particolari e lasciando ripetutamente l’impresa in stallo, in attesa di sue direttive. Dopo un po’ di tempo e qualche avvertimento, il committente, la municipalità di Stoccolma, decise di sollevarlo dall’incarico. Il compagno di avventure Asplund, architetto molto più rigido e trombone, ma che nel frattempo si era ben introdotto nell’establishment, non lo aiutò, anzi a quanto pare lo scaricò del tutto. 

Litigarono malamente. Lewerentz si trasferì a Malmö, apri una ditta di infissi e non si dedicò mai più all’architettura. Questo fino al giorno in cui lo chiamarono per progettare la chiesa di San Marco, la sua ultima opera e per molti architetti una vera e propria pietra miliare.

Carlo Ezechieli


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16 aprile 2020. Monumenti pericolosi, prima parte

 

“Come fare una tesi di laurea”. Era questo il titolo del famoso libretto di Umberto Eco ai tempi vivamente consigliato a tutti gli studenti dagli ultimi anni di liceo in avanti. Avrei suggerito anch’io qualcosa del genere se, ancora a metà di febbraio, avessi saputo cosa rispondere quando una brava studentessa cinese mi parlò dell’idea di sviluppare per la sua tesi di laurea il progetto di un paesaggio commemorativo per il Covid-19. 

Lì per lì ci restai secco, ma la ragazza – rendendosi conto fin da subito della portata epocale delle circostanze – ci aveva visto giusto. Progettare un monumento è una sfida impressionante, in bilico sulla sottile linea di confine tra arte e architettura, linea che diventa ancor più fluida quando si parla di paesaggio.  Una frontiera che per qualcuno, come per il signor Sigurd Lewerentz, svedese, uno dei più notevoli architetti del 1900, si rivelò effettivamente pericolosa e densa di conseguenze.

Il buon Sigurd aveva dato il calcio di inizio alla sua carriera dopo aver vinto nel 1915, col collega Erik Gunnar Asplund, il concorso per il progetto di un nuovo cimitero a Stoccolma: lo Skogskyrkogården, il Cimitero nella Foresta, oggi patrimonio Unesco: un’opera tanto bella da meritare un viaggio. 

Realizzato in una cava dismessa e in un sito dove i Wasa, la famiglia reale di Svezia, aveva piantato 250 anni fa una foresta di pini da cui ricavare il legname per le navi della sua flotta ammiraglia, lo Skogskyrkogården è un cimitero laico, aconfessionale. Il suo concetto di base è profondamente ispirato alle filosofie orientali, il cui fascino era nuovo e sempre più intrigante per l’Europa dei tempi, tanto che principi come il ciclo del divenire continuo, dell’impermanenza, del carattere fondamentalmente illusorio dell’esistenza, si riversano pienamente nell’opera.

Il risultato è che, se i sepolcri sono in qualsiasi cultura destinati a durare nel tempo – tanto che i faraoni d’Egitto costruivano immense piramidi arrivate fino a noi dopo millenni – lo Skogskyrkogården è un bosco dove le tombe, se abbandonate, scomparirebbero nel giro di pochissimi anni.  Praticamente è una foresta, le tracce della presenza umana sono ridotte al minimo, lasciando un paesaggio di incredibile bellezza e serenità.

 

L’asse principale del cimitero è un lungo e stretto viale, largo non più di 4 o 5 metri, bordato da una fitta foresta di pini alti una trentina di metri. Una specie di canyon, che punta diritto alla Upståndelsekappelet, la Cappella della Resurrezione, una sorta di famedio, progetto esclusivo di Lewerentz (segue).

Carlo Ezechieli


   
 

video

 

 

Il viale d´ingresso alla cappella della Resurrezione

 

 

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15 aprile 2020. La casa senza le pareti

 

Chissà cosa andava veramente cercando Luis Barragán quando volle costruire una casa tutta per sé: di sicuro qualcosa di più che un semplice tetto sulla testa. Parlando di una casa senza un’intera parete e con stanze che come soffitto hanno direttamente il cielo, qualche domanda viene spontanea. Anche se la risposta, specialmente in questo periodo di confino entro le mura domestiche, forse è proprio quello che un po’ tutti stiamo sognando.

 

Barragán era un ingegnere, originario di  Guadalajara in  Messico, diventato in seguito uno dei massimi architetti e paesaggisti del 1900, tanto da meritarsi nel 1982 il Premio Pritzker, che per gli architetti vale tanto quanto il  Nobel per i fisici e il Pulitzer per i giornalisti. E non solo. Era un abilissimo uomo d’affari, virtù che presto gli permise non solo di dedicarsi all’architettura con tutta la libertà che deriva dal non avere un lunario da sbarcare, ma anche di comprarsi un lotto nel distretto di  Tacubaya, a Città del Messico.

Un’area a dire il vero impossibile, messa com’è a poche decine di metri dall’intersezione tra due delle principali arterie di traffico della città. La maggior parte delle case di Città del Messico sono costruite in aderenza al muro perimetrale del lotto di proprietà e con un patio interno. Una forma di introversione – curiosamente contrastante con la cultura del posto – dove le aperture verso l’esterno sono solitamente ridotte al minimo, mentre quelle verso il patio interno sono amplificate. E la Casa Studio non fa eccezione.

L’intendimento iniziale di Barragán era quello di acquistare un terreno, anzi due – il suo e uno adiacente, quest’ultimo in seguito venduto con progetto a un certo signor Ortega – recintarli con un alto muro, e farci dentro non una casa, ma un grande giardino. E la casa studio, criterio che se sempre fosse seguito porterebbe a un mondo migliore, è costruita proprio intorno a un giardino e non viceversa. Ed è una sorta di eremo per un monaco, in verità gaudente, vista la nota passione di Barragán per l’equitazione e le donne.

Arrivando dalla rumorosissima Avenida de Tacubaya, della casa si vede solo un muro, con pochissime aperture. Si entra attraversando una stretta anticamera, molto simile a un vestibolo di ingresso ad un convento dal quale, inaspettatamente, si accede ad un atrio inondato di luce. Ma la sorpresa principale è il soggiorno, la cui parete principale è in realtà un’apertura di circa 5 metri per 6 chiusa da un vetro invisibile, diviso da un sottilissimo telaio che forma una croce, simbolo ricorrente nell’architettura di Barragán e della religione cristiana, alla quale era molto devoto.

Se al piano terreno manca una parete – o per meglio dire, questa si estende in tre dimensioni, in un meraviglioso giardino – all’ultimo piano manca il tetto. La copertura è circondata da alte pareti, che non solo rendono lo spazio un interno vero e proprio, ma lo isolano dai rumori, rendendolo aperto unicamente al cielo.

Stare sul tetto della casa studio, circondati da grandi monoliti colorati, è un’esperienza trascendentale. Una strana condizione che deriva dal non essere del tutto certi se trovarsi sul fondo, a contemplare l’oceano d’aria sopra di noi, o se si sta volando, non a bordo di un’astronave … ma di una casa.

Carlo Ezechieli

 

   

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14 aprile 2020. La strana storia dell’edificio che non sembra un edificio

 

Se il ragionier Fantozzi era perseguitato dalla famigerata nuvoletta dell’impiegato, i milanesi e i padani tutti, ragionieri e non, sono perennemente avvolti da una cortina fumogena che, con crudele indifferenza, staziona sulla pianura. Tranne che, per ironia della sorte, nei giorni di pioggia. 

La cosa strana è che come per magia, dall´inizio della quarantena questa sembra essere sparita: ed è un “mixed feeling”. Da un lato la meraviglia, alla quale mi è difficile resistere, per questa nuova, sconosciuta situazione. Dall´altro lo sgomento nel constatare che, se l’umanità intera è a casa in malattia, tutto il resto guarisce. 

Abbiamo strizzato questo mondo fino all´impossibile, siamo dei pazzi alla guida di un bolide e, pur avendo appena fatto un incidente, piuttosto che rallentare non vediamo l’ora di ritornare alla nostra normalità suicida. Per evitare un collasso ambientale – che potrebbe far sembrare le conseguenze del Covid-19, per quanto tremende, una cosa da poco – molti cercano da tempo di cambiare il modo di fare le cose. 

Credo invece che ciò che conta di più sia cambiare il nostro modo di intenderle. Rispetto a questi temi il Serpentine Pavilion realizzato per l’estate 2019 dall’architetto giapponese Junya Ishigami, è secondo me una delle opere più significative degli ultimi tempi.

ph © Iwan Baan

 

Non sembra per niente un edificio, ma piuttosto un’ala con piume di pietra che, appoggiandosi a puntelli sottili e fitti come pioggia battente, si stende delicatamente sul terreno. 

ph © Norbert Tukaj

 

Ishigami realizza una struttura di grande raffinatezza statica e concettuale, ma pensata come potrebbe esserlo un nido, una tana o un alveare. Richiama pertanto strutture costruite sapientemente ad arte, e pertanto “artificiali”, ma che paradossalmente, non essendo opera dell’uomo, vengono comunemente definite “naturali”. 

Ed è proprio questo il punto. Per millenni noi esseri umani abbiamo dato per scontata la nostra estraneità, se non la superiorità, rispetto a tutto il resto, che noi chiamiamo “natura”. È un modo di vedere le cose che per un po’ ha funzionato benissimo, ma che pure ci ha portato a perdere qualsiasi comprensione della nostra appartenenza a un sistema vivente molto più esteso, con il quale abbiamo voluto tagliare ogni legame. 

E a riprova che i problemi di oggi derivano dalle grandi idee di ieri, a questa mancanza di consapevolezza corrispondono azioni che, ripetute sistematicamente, portano a conseguenze come, per l’appunto, il disastro ambientale in corso. Con il Serpentine Pavilion, Ishigami propone qualcosa di nuovo … o meglio, di molto antico, ma in forma moderna. Nel Serpentine di Ishigami lo scopo dell’architettura non è semplicemente quello di costruire spazi abitati da persone, ma di creare una struttura che vede gli esseri umani, non come qualcosa di diverso o di superiore, ma come parte integrante della natura. 

   

 

Ishigami realizza non solo un’architettura, ma anche dà forma, in modo poetico, ad un nuovo racconto collettivo. E questo, io credo, è proprio ciò di cui la nostra società ha bisogno per costruire un futuro, forse un po’ più assennato di quello che abbiamo conosciuto finora, per tutti, anche per i ragionieri e, aggiungo, gli architetti.

Carlo Ezechieli

 

 

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11 aprile 2020. L’eternità in un’ora


 “…e tutto questo si perderà nel tempo come lacrime nella pioggia” diceva Rutger Hauer nel mitico e, si dice improvvisato, monologo finale di Blade Runner, il film capolavoro di Ridley Scott. Non che sia una gran consolazione ma, inesorabilmente, anche il dolore e i disastri di questo periodo finiranno un giorno dimenticati.

Parlando del tempo, o più precisamente di un’eternità, c’è un’opera, secondo me notevolissima, che traduce in forma e materia un orizzonte temporale per noi quasi incommensurabile. È un’enorme scultura che si trova all’interno del campus dell’Unam, l’Università Nazionale Autonoma del Messico. Inaugurato il 23 aprile del 1979 l’Espacio escultorico è un complesso di installazioni ambientali ideato da un collettivo di artisti, tra i quali il più noto era Mathias Goeritz, celebre scultore messicano e autore, con il grande Luis Barragan, delle celebri Torri di Città Satellite, all’ingresso di una nuova espansione della capitale la cui realizzazione iniziò circa settant’anni fa.

 

L’opera principale dello Espacio Escultorico è un anello di 120 metri di diametro sul cui perimetro si innestano 62 enormi prismi triangolari. Quest’ultimo, originariamente pensato come pura opera d’arte, è presto diventato un luogo d’incontro, un osservatorio di astri e tramonti, un suggestivo spazio per eventi, in breve una sorta di piazza per tutti coloro che gravitano intorno al campus. Ed è una specie di orologio che invece di misurare le ore … conta i millenni.

Mentre all’esterno del perimetro il suolo vegetale, perfettamente livellato, è il regno del presente, all’interno il basalto che originato da una grande colata di lava di circa 25.000 anni fa viene messo a nudo rendendo tangibile una profondità temporale che nei soggetti più suggestionabili, come me ad esempio, causa un certo senso di vertigine. In un’ora lo si può visitare, ed è una quantità di tempo sufficiente per vedere tradotto in architettura un ammasso di anni che, rispetto al nostro orizzonte di vita, risulta virtualmente infinito.

   

 

Relativamente parlando, l’eternità dura per sempre ma delle nostre brevi e tutto sommato insignificanti vite, francamente, se ne infischia.

Carlo Ezechieli

 

 

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10 aprile 2020. Le cose che mi mancano di più

 

Una cosa che purtroppo sto scoprendo durante questi giorni di quarantena è che stare in città, chiuso in casa, con limitatissima libertà di movimento, o stare in città e basta, con piena libertà di movimento, mi fa in realtà ben poca differenza. Si tratta comunque di una prolungata e sistematica privazione del contatto con l’ambiente naturale, il più possibile incontaminato, che è la cosa di cui più sento la mancanza.

Forse la pensava così anche il signor Kurt Erich Suckert, meglio conosciuto come Curzio Malaparte che, pur essendo scrittore di professione, fu autore di una delle più incredibili opere di architettura del 1900: la Villa Malaparte di Capri.

 

All’inizio Kurt era un fervente sostenitore del fascismo. Col passare del tempo però, la sua indole ribelle lo portò non solo ad esserne oppositore, ma anche autore di una sequenza di versetti alquanto irriverenti nei confronti di Mussolini. Il Duce non la lasciò passare, anzi, lo mandò al confino sull’isola di Lipari. Ma se il Duce non la prese bene, Il buon Malaparte la prese molto male. Restò silenziosamente al confino per ben cinque anni e al ritorno, finalmente reintegrato nella buona società volle, chissà perché, costruirsi una villa. Vide un aspro terreno su un promontorio a Capri, proprio davanti ai faraglioni e riuscì a convincere il proprietario a venderglielo dicendo che lì ci “avrebbe allevato i conigli”. Era una bugia. La vera intenzione di Malaparte era in realtà quella di costruirci una villa, appunto, ma non una villa normale, una “Casa come me”, come amava ripetere.

Chiamò un architetto ai tempi molto in voga, un tal Adalberto Libera che –a riprova che le scuole di architettura, all’architettura fanno un gran male – compilò, letteralmente, un progetto qualsiasi, in stile Modernista, con il quale fu però possibile ottenere i permessi. Malaparte presto lo congedò e: PARTY TIME! É l’inizio di una delle più fantastiche avventure architettoniche del secolo scorso. 

La Villa è un incrocio tra una grossa cabina elettrica, una piattaforma di atterraggio per elicotteri, una nave arenata sugli scogli, un fortino o, più precisamente, una casamatta. Rossa, monolitica, con una scalinata monumentale che, invece di portare dentro una chiesa, arriva sul tetto: una superficie piana, priva di parapetti, completamente astratta, quasi metafisica. Ma il tempio in questo caso non è un edificio, ma tutto quello che ci sta intorno.

 

 

È l’esperienza di attraversare le porte della percezione per trovarsi non solo avvolti ma parte integrante di un sistema ambientale virtualmente infinito, fatto di vento, di luce del sole, del mare e dell’orizzonte.

Di osservare e di essere allo stesso tempo osservati dalle piante e da ogni grande e piccola forma di vita. Molti, tra questi lo scrittore Bruce Chatwin, sostengono, e lo sostengo anch’io, che la lunga e si dice sofferta permanenza di Malaparte a Lipari, un’isola, in una situazione dove si è inevitabilmente e costantemente immersi in una condizione ambientale del tutto particolare e intensa, abbia in realtà rapito Malaparte. Una specie di Calypso, senza corpo e senza forma, ma per questo non meno poderosa, che lo condusse fino a Capri per costruirle un tempio dove venerarla. Un monumento sotto forma di casa e che senza dubbio è uno dei più grandi capolavori del XX secolo.

Carlo Ezechieli

 

 

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9 aprile 2020. Correre sul tetto di una macchina 

A Milano, il termine infamante “pirla” stava in origine a indicare qualcuno che gira su se stesso senza destinazione né scopo. La prima storia mi è venuta in mente intanto che stasera all’imbrunire, stavo facendo del podismo, girando come un pirla, per l’appunto, tra garage e giardino, tra giardino e garage, girando e girando. Dicendo tra me e me: ma pensa che bello se, per questo periodo di quarantena, sul tetto ci fosse un anello di corsa proprio come quello dell’Unité d’Habitatión di Marsiglia.

 

L’anello in questione – ispirato al circuito di prova per automobili sul tetto del Lingotto, il vecchio stabilimento della Fiat a Torino – è lungo circa 300 metri. Si corre sul tetto, a circa 52 metri di altezza, sopra un grande edificio, 18 piani, capace di ospitare fino a 1.500 persone.

Completata nel 1952 su progetto dell’architetto Charles Edouard Janneret detto Le Corbusier, l’Unité era una specie di astronave aliena arenata su quella che ai tempi, a Marsiglia, era pura campagna. Sembrava venuta da un altro pianeta, da tutti i punti di vista.

Ascensori moderni, in batteria, che salivano e scendevano a quasi 2 metri al secondo. Vetri con camera ad alte prestazioni termiche: mai visto prima niente di simile. Conteneva un ristorante, e tuttora contiene un albergo, un’edicola, un bar, un piccolo negozio di alimentari e un asilo con una piccola piscina, sempre sul tetto.

Appartamenti di circa 100 mq, su due livelli, combinati secondo uno schema ancor oggi considerato incredibile e che introduceva per la prima volta, e a costi popolari, il concetto di loft, un tipo di residenza oggi così desiderato. Il tutto in un’epoca in cui i frigoriferi a malapena esistevano e le provviste di casa venivano ancora conservate nelle ghiacciaie. L’Unitè era una città intera contenuta dentro un edificio, il più possibile compatta. Minimizzava in tal modo la diffusione a tappeto delle aree urbanizzate e lasciava scorrere sotto di sé il paesaggio, dal quale si staccava, sostenuta da grandi pilastri.

ph. courtesy Fondation Le Corbusier, © VGBild Kunst

 

È un’opera, un capolavoro, che ha avuto un’influenza enorme su innumerevoli e celebri architetti, e che lascia giudizi senza mezzi termini. Finora, nei suoi riguardi non ho mai sentito nessuno esprimersi tiepidamente, con termini come “interessante” o “mi lascia indifferente”. Sono invece comuni lodi del tipo “sensazionale”, “incredibile” o critiche durissime come “che incubo” o “un orrore”.

Fatto sta che dopo esserci stato due volte, sul famoso anello di corsa da 300 metri, non ho mai visto correre nessuno, né mi risulta si tengano abitualmente gare di alcun tipo. Ma percorrerlo è come passeggiare sul ponte di una grande nave. Il panorama è meraviglioso, e anche senza correre è abbastanza per togliere il fiato. Rimane infine misterioso il motivo per cui Le Corbusier – pur avendo, esattamente ai piedi dell’Unitè, decine di chilometri di campagna dove poter correre e scorrazzare liberamente – abbia deciso di realizzare un anello di corsa proprio sul tetto. Era forse in quarantena anche lui? Non lo so … ma per scoprirlo mi piacerebbe realizzarne uno simile proprio sul tetto di casa mia.

Carlo Ezechieli

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