RAPPORTO SYMBOLA 2016: QUANTO VALE LA CULTURA

Pubblicato pochi giorni fa il quinto Rapporto 2016 di Fondazione Symbola e UnioncamereIo sono cultura. L’Italia della qualità e della bellezza sfida la crisi”.

Quella che le due istituzioni scattano è la fotografia annuale del sistema culturale e della creatività italiana, in cui vengono quantificati i due settori economici. La cultura si conferma uno dei motori trainanti dell’economia italiana: infatti, il sistema produttivo culturale e creativo composto di imprese, pubblica amministrazione e non-profit genera 89,7 miliardi di euro e mette in movimento diversi altri settori dell’economia italiana riuscendo ad attivare circa 250 miliardi di euro, il 17% del valore aggiunto nazionale. Dati questi che si riflettono in positivo anche sull’occupazione: la produzione culturale e creativa dà lavoro a 1,5 milioni di persone, pari al 6,1% del totale degli occupati.

I numeri dei sistemi culturale e della creatività in Italia (fonte, Rapporto 2016 “Io sono cultura”; Symbola-Unioncamere)

L’edizione 2016 di “Io sono cultura” dedica spazio al funzionamento del mercato del lavoro dei laureati in architettura. Lo studio si sofferma sui cambiamenti intervenuti negli ultimi anni, in cui – si legge – “la scena sembra essere lievemente evoluta”. In questa scena modificata, gli estensori del Rapporto sostengono che “la politica ha dovuto abdicare a quel ruolo di committente principale cui molti architetti erano fin troppo affezionati”.

A seguire ci sono state le conseguenze dell’effetto Erasmus (grazie al quale i giovani sono venuti a contatto con sistemi educativi e professionali dinamici e inclini a una gerarchia basata sulla qualità), poi è subentrata la crisi economica, che ha molto acuito la crisi occupazionale, ma anche la voglia di trovare soluzioni non scontate. Infine, due eventi apparentemente contraddittori: il primo è consistito in un calo rilevante delle domande di iscrizione alle scuole di architettura; il secondo in una evoluzione positiva dell’approccio al lavoro delle nuove generazioni di architetti, che si affacciano sul mercato con un atteggiamento più europeo, aperto alle collaborazioni con altre figure, avveduto sul piano dell’informazione tecnologica, indifferente a confini territoriali e disciplinari.

In questa fase si sovrappongono due modalità diverse di intendere il mercato del lavoro degli architetti. Una più novecentesca, nella quale l’apprendistato è ormai ridotto a una forma di schiavitù e lo sconfinamento in altri settori lavorativi. Una più aggiornata, nella quale la costruzione delle conoscenze e delle relazioni è più produttiva, indipendente e consapevole e la disponibilità a sconfinare in altri ambiti frutto più della capacità di espandersi e costruire alleanze che non della disperazione.

L’edizione 2016 del rapporto di Symbola e Unioncamere offre anche numeri interessanti. Dagli anni Settanta a oggi il numero di università che offrono corsi di laurea in architettura è salito da 10 a più di 40. La popolazione studentesca si aggira oggi sugli 80mila iscritti. Proprio per quest’onda lunga il numero di professionisti registrati all’albo è probabilmente al massimo storico: siamo a oltre 160mila.

La cosa interessante, a guardare le statistiche, è che a differenza di quanto si è portati a credere la stragrande maggioranza dei laureati in architettura fa l’architetto. Su una platea lavorativa considerata attiva di quasi 100mila architetti ben 86.300 si collocano nell’universo lavorativo degli studi di architettura. Le altre quote rilevanti le troviamo tra gli impiegati negli studi tecnici e d’ingegneria, nell’industria del design, nella pubblica amministrazione, nelle costruzioni. I restanti sette-otto mila si distribuiscono tra lavori che hanno più o meno a che fare con la loro formazione e lavori del tutto esotici, come le banche, l’organizzazione di eventi, il commercio al dettaglio e l’immancabile ristorazione. Manca completamente l’editoria, nonostante siamo un paese nel quale si pubblicano ancora un centinaio di riviste specializzate.

Nella lettura di questi numeri va comunque tenuto conto che i dati raccolti si riferiscono all’attività principale svolta. Ad ogni modo, il primo risultato è che il luogo comune che gli architetti non lavorano viene smentito.

Mettendo le indagini europee vicino a quelle nostrane ne capiamo un po’ di più.

La crisi ha fatto aumentare vertiginosamente il numero degli studi di architettura nella Ue: da 130mila nel 2008 si è passati a 162mila nel 2012. Succede infatti che gli esuberi dei grandi studi invece di cercare lavoro in altri uffici grandi aprano strutture professionali micro, in grado di cercare mercati alternativi, assorbire lavori part-time, consentire la massima flessibilità.

Questo non fa che acuire la debolezza degli studi di architettura che in Italia, hanno una dimensione media già di per sé ridotta (in media, quattro addetti per studio). La scarsa strutturazione degli studi rende l’offerta poco adatta alle esigenze di commesse importanti. In Italia, quindi, alle difficoltà derivanti dalla riduzione della domanda di servizi di architettura, si aggiungono quelle connesse a un’offerta eccessivamente frammentata.

Altra conseguenza è che il reddito medio dell’architetto si è di molto ridimensionato. Dal 2008 al 2012, su base europea, è sceso da 32mila l’anno a meno di duemila. L’Italia si colloca nella fascia bassa, con un reddito medio di circa 1300 euro mensili. Tutto questo mentre il volume d’affari degli studi maggiori continua a crescere velocemente, incrementando la forbice tra ricchi e poveri.

Il problema principale degli architetti italiani non è la disoccupazione, né tantomeno la sottoccupazione, semmai c’è un combinato disposto di retribuzione bassa o bassissima e di scarsa reputazione che ne fa delle figure sociali particolarmente deboli.

Cerchiamo allora di evidenziare i connotati maggiori del problema più in dettaglio. Abbiamo accennato alla polarizzazione. In Italia il fenomeno è particolarmente acuto. Gli studi in grado di competere su scala globale sia sul piano della qualità che della capacità professionale non sono molti: hanno lavoro, assumono, ma hanno un’incidenza abbastanza limitata. La percentuale di neolaureati che cerca lavoro presso gli studi noti è scesa vertiginosamente.

A quel punto il giovane architetto preferisce rivolgersi direttamente al mercato estero, che consente un grado maggiore di autorealizzazione e migliori compensi. Viceversa si moltiplicano gli studi molto piccoli, facili a far nascere ma anche a morire, e in misura minore anche gli architetti che vanno a lavorare sottopagati per figure tecniche meno qualificate, come i geometri o gli ingegneri.

Ciò che l’architetto porta in dote in questo caso è soprattutto l’accesso a un più ampio mercato nazionale e la possibilità di partecipare a gare e concorsi europei e internazionali. La polarizzazione è in parte inevitabile, ma allo stesso tempo rischia di spingere verso una proletarizzazione eccessiva una parte non secondaria del corpus professionale. Va quindi presa in considerazione e per quanto possibile contrastata con un rilancio di occasioni professionali interne, rivolte a studi di media dimensione.

Prendendo in considerazione un mercato transnazionale di studi importanti e riconosciuti, si può identificare un tipo specifico di polarizzazione, che i giovani cominciano a definire come una forma nuova e subdola di schiavitù. I giovani architetti hanno infatti disperato bisogno di fare curriculum. Il che vuol dire che sono disposti a lavorare come stagisti sottopagati o non pagati se lo studio che assume è sufficientemente famoso.

Questo in genere vuol dire orari di lavoro disumani, specializzazione estrema e azzeramento quasi totale della vita non lavorativa. Quando questo avviene in paesi dove l’architettura è ben inserita nei processi produttivi può portare nel tempo a un impiego pagato decentemente. Nei paesi più deboli, il gioco può ripetersi all’infinito, o comunque troppo a lungo.

Ci sono anche alcuni segnali positivi. Il primo è il fiorire di compagini professionali interdisciplinari e più adeguate ai nuovi mercati e alla nuova comunicazione digitale. Il secondo è qualche timido segnale di miglioramento nel rapporto tra formazione e lavoro, con università che supportano finalmente start-up anche in questo settore e programmi di studio che subiscono qualche primo aggiustamento nella giusta direzione. Il terzo lo vediamo nella possibilità di espandere le possibilità professionali dell’architetto verso nuovi settori. Un tempo era l’insegnamento nelle scuole medie e superiori, tipico degli anni dei baby-boomers. Oggi possono essere il settore del design, quello della progettazione o della fabbricazione digitale, quello delle attività economiche legate alla cultura e al turismo.

Quello infine delle infrastrutture per la produzione alimentare, verso la quale vanno orientandosi un numero crescente di laureati in architettura e discipline simili. Tutti settori presenti nelle statistiche attuali, ma oggi ancora troppo marginali, mentre dovrebbero in futuro offrire sbocchi maggiori ai laureati e buoni indizi a chi cerca di capire in che direzione andrà nei prossimi decenni la professione dell’architetto.

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