SVELARE I LIMITI, MOLTIPLICARE GLI ISTANTI

Una sfida attraverso il mezzo fotografico, le architetture rappresentate in una nuova visione complessa. Spezzare la cornice per lasciare liberi tempo, spazio e interpretazione.

di Giovanna Vitale

La fotografia nasce come scatto unico, come singolo fotogramma, ma da subito questa tecnologia lascia intuire la possibilità di essere usata come strumento per appunti visivi multipli, veloci e sequenziali, e come strumento per catturare con immediatezza un fenomeno in modo tale da rappresentarlo e condividerlo con altri. È una sua peculiarità il fermare per sempre un istante, scelto tra lo scorrere infinito di immagini, nello spazio e nel tempo. Eppure può essere usata anche per svelare il limite dei quattro lati che la racchiudono fisicamente, per suggerire la possibilità di denotarli come confini aperti che sottolineano una zoomata non solo verso ciò che vi è raffigurato, ma anche verso ciò che c’è oltre il margine della composizione, al di là del limite dell’inquadratura.

L’arte ha molto indagato sul rapporto tra artista, cornice e pubblico, sull’elaborazione del limite imposto dai formati delle tele, basti pensare ai futuristi che prolungavano le pennellate sulla cornice, in modo da far uscire il gesto dal quadro, o alle cornici sagomate di Dalì, o ancora alla metafora quadro-finestra di tante opere di Magritte.

 
Memoriale della Shoah (Arc. Peter Eisenman). Berlino 2005 (foto ©Giovanna Vitale)

Svelare il limite e moltiplicare l’attimo portano con sé una riflessione sui meccanismi del vedere e del far vedere. Perciò il modello di indagine che le composizioni qui riprodotte rappresentano costituisce un particolare tipo di racconto fotografico che suggerisce ragionamenti sul superamento del margine chiuso, sul mezzo fotografico come strumento di analisi visiva aperta all’istinto soggettivo e, contemporaneamente, alla rappresentazione condivisibile.

Si tratta di composizioni nelle quali i singoli scatti fermano la percezione immediata, ciò che l’occhio ha catturato, attimi sensoriali irripetibili, che composti nell’insieme raccontano l’intera azione del guardare. Sono appunti visivi sul fenomeno che il fotografo sta osservando e registrano l’esperienza che sta compiendo, insomma restituiscono l’emozione del compiere un’operazione notazionale che è sempre spontanea per chi ha l’intento di raccontare con le immagini.

 
Museo del Novecento (Arch. Italo Rota e Fabio Fornasari), Milano 2012 (foto ©Giovanna Vitale)

 

Il bordo o la cornice possono descriversi come una ‘lacuna’ continua che distacca il disegno dal suo intorno. Importa poco in qual modo tale discontinuità si realizzi; può essere costituita da un contrasto di forma o di colore, da un mutamento di direzione, o persino da uno spazio vuoto. Basta che l’osservatore venga messo sull’avviso di una netta rottura della regolarità. Scoprendo un simile campo racchiuso ci attendiamo una zona che valga la pena di esaminare. Una volta impegnati in tale esame, il bordo funzionerà come una barriera vista con la coda dell’occhio. Ci dirà dove cominciare e dove finire

E. H. Gombrich, Il senso dell’ordine

Leonardo Arte, Milano  

Immergersi nel fenomeno, compiere un’esperienza, accorgersi di forme, linee, spazi, luci, colori, volerli fermare nel tempo, sono le attività abituali del fotografo. La sua arte sta nel particolare modo di annotare, di rendere visibile agli altri quello che ha percepito. Il significato di “prendere nota” nel linguaggio comune, è vicino a quello dei verbi “notare” e “annotare”, e non è altro che l’atto di accorgersi di qualcosa, di isolarlo, di dargli una forma visiva, per ricordarlo in seguito, ma anche per comunicarlo agli altri.

 Questi fotocollage sembrano voler smentire il fatto che in ogni fotografia venga fissato il tempo. Al contrario, sembrano volerlo moltiplicare e dilatare nella descrizione del movimento dell’occhio e di un “attimo dinamico”. Lasciano intravedere la dimensione inarrestabile del tempo.

 
Vitra Design Museum (Arch. Frank Gehry), Weil am Rhein, 2000 (foto ©Giovanna Vitale)

 

Wim Wenders ha detto che ogni foto è anche la prima chiave di un film e ha raccontato l’utilizzo che lui fa del mezzo per i suoi scopi cinematografici. E infatti, la prima foto è l’incipit di una storia e in ogni seconda immagine ha inizio un montaggio entro il quale si forma il senso dello spazio, del movimento e dell’azione. Nel nostro caso, talvolta appaiono dei personaggi, esseri umani o oggetti, che raccontano qualcosa di sé, talvolta balzano all’occhio dei particolari che, altrimenti, non si sarebbero notati.

Così, in questa serie dedicata ai musei, fotografati in oltre vent’anni di ricerca in diversi Paesi del mondo, si fa riferimento anche alla magnifica ossessione di ogni collezione e di ciascun collezionista, quella cioè di cogliere un particolare, un tema, una tipologia e raccoglierla in (potenzialmente) infinite sfumature, ripetizioni che differiscono solo per minimi spostamenti. E nel presentarla si cerca di creare lo stesso sguardo meravigliato che ci spinge a visitare i musei.

 


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