Oggi salutiamo per l’ultima volta Gaetano Lisciandra. Architetto, urbanista, amico e maestro.
Sua l’idea di questo giornale, innumerevoli le serate trascorse insieme a parlarne, immaginarlo, progettarlo, e ci spiace di essere riusciti a fare solo la minima parte dell’informazione che lui immaginava.
Accade di chiamare maestro anche chi non ha insegnato niente a nessuno. Da Tano invece abbiamo imparato molto anche se non siamo stati capaci di mettere in pratica ciò che ci ha insegnato. Ci manca il suo rigore intellettuale, di cui è esempio questo contributo che aveva scritto per IoArch nel 2009.
Lo ripubblichiamo qui (pur ricordando che gli esempi puntuali su Milano fanno riferimento a un regolamento edilizio oggi cambiato) perché anche chi non ha avuto la fortuna di conoscere Tano comprenderà perché oggi lo piangiamo.
NORMA & PROGETTO
In che rapporto stanno la Norma e il Progetto? Di che natura è la relazione tra i due? Si amano? Si detestano? Si ignorano? Innanzitutto, chi sono?
Il progetto dovrebbe essere cosa abbastanza nota. Non altrettanto, forse, la norma.
La parola “norma” viene dal latino e, fin qui, niente di strano. Più sorprendente è forse scoprire che la “norma” era la “squadra”, lo strumento per tracciare sulla carta o sul terreno righe rette, perpendicolari e rispettose degli orientamenti celesti: del sole, della luna, dei punti cardinali.
Gli agrimensori, i geometri, gli architetti e i capomastri per misurare le righe tracciate con la norma usavano un altro strumento. I Romani la chiamavano “regula”, i Greci “kanon” – la canna misuratrice – da cui il nostro “canone”.
La norma e la regola non sono soltanto strumenti, come dire, operativi, ma anche di conoscenza, tant’è che la parola greca “gnomon” – da cui deriva norma – è costruita sulla radice gno di γνωρίζω “venire a conoscere) da cui appunto “gnoseologia”, “conoscenza”, “nome”, “cognome”, “to know”, e tante altre parole ancora.
La norma e regola sono nate insieme alla geometria e all’architettura. Ne sono parte costitutiva.
La norma e la regola nelle loro versioni da tavolo – squadra e riga – sono state – fino all’avvento del computer – gli strumenti insostituibili del progetto. Altrettanto indispensabili nella costruzione degli edifici sono stati il filo a piombo e la reggia, come chiamano in Lombardia la riga da cantiere. Il legame tra la norma e l’architettura è dunque originario e intrinseco, conoscitivo e operativo. Ma il loro rapporto non si esaurisce qui. Nel tempo si sono sviluppati tra loro molti altri legami.
La norma e la regola avevano dimostrato una grande capacità di rilevare, rappresentare e comunicare informazioni esatte, misurate, corrette, riproducibili, opponibili. In due parole: regolari e normali. Non stupisce perciò più di tanto che abbiano esteso la loro autorità su altri campi e che siano state usate anche per designare altri strumenti – non materiali – che in altri campi dessero risultati analoghi:
- La tecnica. Regole e norme tecniche.Costruire a regola d’arte, costruire a norma.
- L’arte. Da più di cent’anni va forte l’immagine dell’artista sregolato. In passato, tuttavia, anche l’artista doveva obbedire a quelli che – forse non a caso – venivano chiamati ordini, agli stili, ai generi e ad altro ancora. Anche oggi, peraltro, se volessimo addentrarci di più nell’argomento, potremmo accorgerci che vigono molte regole non scritte né dette, ma non per questo meno seguite.
- Il diritto. La summa di tutte le leggi che prende nome proprio da ciò che la norma/squadra e la regola sanno fare meglio: tirare righe diritte.
E ancora; esistono norme di tipo sanitario, sociale, energetico, di sicurezza e via dicendo. Tutte impongono qualcosa al progetto. Chi una distanza, chi l’ampiezza dei locali, chi la larghezza delle porte, chi lo spessore dei muri. E poi ancora l’umidità dell’aria, l’intensità della luce, la temperatura estiva, quella invernale…
Un grande insieme di mamme, zie, nonne, maestre che vogliono dire la loro, poco importandogliene se una si contraddice con l’altra. Un abbraccio che può risultare mortale non solo per il progetto ma anche per l’architettura che ne è l’esito.
Questo introduce ad un secondo e più importante nesso. Quello che unisce la NORMA alla FORMA.
La norma infatti non solo incide sulla pratica professionale del progettista ma contribuisce anche – nel bene e nel male – alla conformazione dell’edificio e della città. Alcuni esempi possono aiutare.
Le norme sulle distanze. Da quando queste norme – figlie dell’urbanistica razionalista e igienista del secolo scorso – hanno impedito o reso più difficile la costruzione di edifici sul confine di proprietà, il paesaggio urbano è cambiato. Non ci sono più pareti cieche in attesa di un muro che le copra – questo è vero – ma, in compenso, le strade e le piazze non sono più delimitate da cortine continue di case. Gli edifici di una volta che – a norma di codice civile – si affacciavano sulla strada, uno a fianco dell’altro, manifestavano, in forme urbane, la coesione – e naturalmente anche la sua controfaccia, il conformismo – della società premoderna o non ancora modernizzata. Analogamente, la norma che impone distanze dai confini e tra gli edifici contribuisce a tradurre l’individualismo trionfante della modernità – e il suo presunto anticonformismo – in forme architettoniche autonome e separate, individuali appunto. Forme, spesso, programmaticamente così diverse da essere incapaci di comunicare l’una con l’altra; forme – a volte, seppur di rado – così eccezionali da riscattare la mediocrità di un intero quartiere.
Le norme sui sottotetti. Il recupero abitativo dei sottotetti esistenti, in sé e per sé, è senz’altro positivo: costruire sul costruito è, teoricamente e storicamente, una buona prassi architettonica. Gran parte del fascino dei centri storici proviene dalle stratificazioni che si sono affiancate e sovrapposte nel corso di lunghi secoli. Aberrante mi pare invece la possibilità, concessa dalla legge lombarda, di recuperare quelli non ancora costruiti, dopo che siano decorsi cinque anni dalla loro ultimazione.
L’unico merito – diciamo – che si può attribuire a questa norma è quello di avere “recuperato” una forma verbale che era stata abbandonata in una qualche soffitta, di cui quasi nessuno si ricordava più: il futuro anteriore. Il tempo che consente di descrivere una successione di fatti che si svolgono nel futuro.
Dopo che sarà stato costruito, il sottotetto sarà esistente. Il sottotetto potrà essere recuperato a fini abitativi dopo che saranno passati cinque anni da quando sarà stato costruito (per non essere abitato).
In attuazione di queste norme, sulla sommità degli edifici si progettano e si costruiscono dei locali che devono essere non abitabili e quindi bassi, stortignaccoli, con poche finestre. Per cinque anni non dovranno essere abitati, ma poi potranno esserlo.
Il recupero dei futuri sottotetti – a ben riflettere – è il frutto del peccato di consentire domani ciò è vietato oggi: un peccato di pubblica ipocrisia. Per questo, forse, la norma richiede, assieme a un’espiazione quinquennale, che i locali dei sottotetti recuperati non possano avere – anche dopo la riabilitazione – le stesse caratteristiche di quelli concepiti e nati alla luce del sole e in grazia di Dio. Pretende, anzi, che si portino dietro, per sempre e a tutti visibili, i segni della loro, non proprio regolare, venuta al mondo.
Ecco un modo esemplare in cui la norma penalizza – in senso proprio e figurato – la forma, l’architettura, la città.
La norma sulle altezze del Regolamento Edilizio di Milano è invece, per me, mirabile: un grande esempio di chiarezza e capacità di applicazione nelle situazioni più diverse. La sua durata negli anni è dimostrazione della sua efficacia ed è, tempo stesso, causa diretta di una coerenza di lunga durata che dà ordine alla città, pur nella pluralità delle forme.
La durata nel tempo delle norme è un fattore determinante per poterle assimilare e attuare con continuità e nel modo migliore.
Oggi questo capita sempre meno. Le norme si sovrappongono, si rincorrono e si modificano in continuazione. Progetti pensati in un modo devono faticosamente essere aggiustati, anche in corso d’opera, per far fronte a nuove esigenze e prescrizioni, addirittura retroattive come quella del bonus volumetrico dato in omaggio dal Decreto Dirigenziale della Regione Lombardia dell’agosto 2008 anche a chi aveva ottenuto il titolo abilitativo prima del 1 gennaio 2008, purché si adeguasse alla normativa energetica entrata nel frattempo in vigore. Risultato: un fiorire di varianti in corso d’opera con innalzamenti, inciccimenti, debordamenti degli edifici già mezzo costruiti. Una vera e propria pugnalata alla schiena.
Qui si pone il problema della coerenza e della continuità: un progetto deve avere il diritto ad una normativa costante per tutto il tempo che va dalla sua concezione al compimento dell’opera.
Come il sopravvenire di nuove norme nel corso dei lavori, così anche il loro venir meno può essere disastroso, con conseguenze addirittura irrecuperabili. È quello che sta avvenendo a seguito della sentenza del TAR Lombardia Milano che ha richiamato tutti al dovere di portare rispetto alla sagoma degli edifici, anche – e soprattutto – di quelli che non si reggono più in piedi o non possono più essere utilizzati per la funzione per cui erano stati costruiti. Secondo il TAR, se tieni in piedi qualcosa dell’edificio puoi cambiarne la sagoma; se lo butti giù, invece, lo devi ricostruire tal quale a prima perché altrimenti non resterebbe più traccia del suo passaggio sulla terra. Risultato? Saremo costretti a tenerci per sempre tutti i catorci che infestano le nostre città e le nostre periferie: depositi e capannoni, casermoni e casette dei sette nani. Demoliti sì. Riformati no. Secondo il TAR, la categoria della ristrutturazione è un principio di carattere generale della legislazione urbanistica tutelato costituzionalmente. È chiaro che qui si pone il problema di chi giudica chi e su cosa. I giuristi discettino pure in punta di diritto, a me pare che siamo di fronte ad una chiara invasione della norma giuridica nel territorio del progetto e dell’architettura.
Il fatto è che in questo Paese tutto diventa norma e per ogni norma c’è un organo di produzione e controllo che decide per conto suo. La maggior parte delle norme, poi, sono anche leggi e per ogni legge ci sono almeno tre giurisdizioni – amministrativa, civile e penale – che possono intervenire e giudicare in totale indipendenza. L’apparato normativo, insomma, è esploso in mille frammenti, ciascuno dei quali rivendica autonomia e diritto di voto e di veto. Se, come abbiamo detto all’inizio, il progetto, fin dalla sua nascita, non può fare a meno della norma, un eccesso di norme che lo tirano da tutte le parti lo può fare impazzire come il rosso d’uovo quand’è maldestramente sbattuto. E così, niente più maionese.
Gaetano Lisciandra