A mio avviso, questa pandemia ci sta insegnando alcune importanti lezioni. La prima riguarda la sacralità della natura e la consapevolezza che più la ostacoliamo, più violiamo l’ambiente incontaminato, più questo cerca di proteggersi. Sembra che la natura ci stia dando un piccolo segnale di avvertimento che suona come: “Ecco qui! Visto che continuate a disturbarmi, vi invio un virus moderatamente aggressivo. Avrei potuto fare molto peggio, ma prendetelo come avvertimento. Statevene a casa per un po’”.
In sostanza, la soluzione è lasciare grandi aree del nostro pianeta inalterate. È per la nostra sicurezza, dato che potenzialmente i virus sono ovunque. E in termini di pianificazione urbana questo tema apre un dilemma. Le città più dense favoriscono sicuramente il contagio, ma allo stesso tempo permettono di lasciare sostanzialmente inalterate grandi porzioni di territorio. O dovremmo al contrario de-densificare, sul filone delle visioni di Frank Lloyd Wright?
La domanda non è banale, perché tutti abbiamo potuto vedere quanto New York, una delle città più dense al mondo, sia stata furiosamente colpita dal Covid-19. È un vero e proprio enigma urbano: dobbiamo disperderci e cercare di vivere in armonia con la natura oppure mantenere le due cose separate? In breve, dovremmo lasciare le città o dovremmo svilupparle?
Il secondo punto è: quanto è francamente necessario viaggiare? Dobbiamo davvero spostarci sempre e dovunque? In questi giorni stiamo imparando che ci sono innumerevoli operazioni che possiamo svolgere senza alcuna necessità di spostarci. Esiste peraltro un calcolo dell’efficienza dei trasporti secondo il quale a parità di distanza un aereo avrebbe bisogno di consumare l’80% della sua massa in carburante, un’auto circa il 30%. Ciò significa che gli aerei sono notevolmente inefficienti, contribuiscono fortemente alle emissioni di CO2 e hanno un impatto negativo sulla qualità dell’aria.
Quest’ultimo punto apre un curioso paradosso legato a Covid-19 e alla reclusione. Nonostante questo virus colpisca i polmoni e il tratto respiratorio, la qualità dell’aria di cui abbiamo potuto godere durante questo periodo è a dir poco incredibile. Eravamo tutti a casa, abbiamo fermato quasi tutto e la qualità dell’aria è davvero migliorata.
È come se la natura ci dicesse di nuovo: “Ehi guarda, ho ripulito la vostra aria per mostrarvi quanto sia importante”. Pertanto, dobbiamo davvero viaggiare continuamente? Credo di no. Ciò di cui abbiamo veramente bisogno è una maggiore qualità dei nostri spazi.
Una cosa di cui ho avuto la chiara percezione – correndo nel parco all’inizio del lockdown, in una condizione di calma e serenità davvero insolita – era la qualità del luogo in cui mi trovavo. Mi è venuto spontaneo pensare che quello di cui avevo realmente bisogno non fosse il mio ufficio, ma piuttosto un parco.
Abbiamo bisogno di parchi. Ciò di cui tutti abbiamo bisogno è ciò che rende buona l’aria, ecco perché abbiamo bisogno di spazi che ci facciano respirare, non il contrario. Se fossimo solo un po’ più spirituali, non potremmo fare a meno di pensare all’importanza dell’aria pulita.
Non facciamo mai caso al nostro respiro: è una cosa talmente inconscia che nessuno ci pensa mai. È solo attraverso la meditazione che diventiamo consapevoli del nostro respiro. E ora, è quasi come se stessimo tutti meditando.
Per tornare al dilemma dell’inizio, credo che arrivati a questo capitolo della storia sia troppo tardi per abbandonare le città. Ne abbiamo bisogno, ma sicuramente è fondamentale portare la natura nelle nostre città, portarla ovunque, e fornire elementi che ci facciano respirare. A Milano, ad esempio, si trova il noto, bellissimo edificio di Stefano Boeri, dove la facciata è natura. E parlando di natura, essa costruisce meravigliosi sistemi di supporto alla vita in cui il design non è affatto coinvolto: cresce e basta. Dovremmo imparare davvero a emulare i suoi principi per costruire le nostre città.
Arthur Mamou-Mani
Laureato alla AA, ARB/RIBA FRSA, l’architetto francese Arthur Mamou-Mani guida lo studio Mamou-Mani Architects, specializzato in un nuovo genere di architettura progettata e realizzata digitalmente. Docente all’Università di Westminster, possiede il laboratorio di fabbricazione digitale Fab.Pub che consente a ricercatori e aziende di sperimentare con grandi stampanti 3D e macchine a taglio laser.
Dal 2016 è membro della Royal Society for the Encouragement of Arts, Manufactures and Commerce. Per il progetto Wooden Waves installato presso la sede della società di BuroHappold Engineering ha vinto il Gold Prize all’American Architecture Prize e il Rising Stars Award del RIBA Journal nel 2017. Arthur ha tenuto numerose conferenze, compresi dei talk TED-X negli Stati Uniti, ed è apparso sulle copertine di Financial Times, New-York Times e Forbes. Prima di fondare il proprio studio nel 2011 ha lavorato presso Atelier Jean Nouvel, Zaha Hadid Architects e Proctor and Matthews Architects.