L’attualità di Yona Friedman

Poco più di un mese fa, il 20 febbraio, Yona Friedman ci ha lasciato.

Nella sua lunga esistenza, 96 anni, ci ha raccontato innumerevoli modi di pensare come vivere questo nostro piccolo pianeta, il tutto sempre avvolto da una indomabile leggerezza, con il sorriso e la grazia che solo i maestri sono in grado di fare.

Le riflessioni di Emmanuele Lo Giudice sull’attualità del suo pensiero.

Pur avendolo conosciuto personalmente, cercare di definire chi è stato Yona Friedman è molto difficile. Pur essendo un architetto per titolo, non lo si può definire un architetto come lo si intende comunemente. È sempre stato poco interessato a costruire edifici, ritenendo più importante lavorare sul modo di percepire e pensare l’architettura e la città, concentrando le sue energie non sulla realizzazione di oggetti architettonici, ma sulla elaborazione di concetti tramite testi, disegni, modelli e installazioni. Oltre ad occuparsi di architettura è stato urbanista, artista, fisico, filosofo, sociologo, soldato, muratore, designer, regista, narratore, combattente, professore, funzionario Unesco, saggista, utopista e tanto ancora. Ma soprattutto è stato capace di influenzare intere generazioni di architetti e artisti, esplorando sempre le profondità stesse del linguaggio nelle sue infinite possibilità espressive.

Senza dubbio fin dai suoi primi lavori degli anni ‘50 il suo pensiero è sempre stato profondamente innovativo, sia rispetto alla tradizione dei maestri della modernità, sia in relazione alla visione post-moderna del modo di concepire la città e lo spazio abitabile che si avrà negli decenni successivi. Il suo progetto teorico si muove dentro gli schemi di una ricerca erratica imprevedibile, che non prevede un esito finale definito. Un lavoro di continua sperimentazione, partecipativo e performativo che trova nell’indeterminazione, nell’improvvisazione e condivisione sociale i suoi fondamenti.

Friedman non ha inventato teorie e nuove forme dell’abitare ma, cosa più importante, è colui che ha illustrato nuove maniere di percepire e raccontare il mondo, risultando in tal modo una delle figure più interessanti, poliedriche e complesse della storia contemporanea.

© ADAGP-Yona Friedman


Come affermava egli stesso nel 2006, tutti i suoi studi “si basano sull’idea di processo, in definitiva è questo il carattere di tutta la mia opera”. Per Friedman il progetto non mantiene uno statuto normativo, ma il ruolo di una consapevolezza critica condivisa, da applicare di volta in volta nei casi più specifici.

In Friedman progetto architettonico e sociale camminano insieme, non si può pensare l’uno senza l’altro e farlo è un grave errore. I suoi progetti, fin dagli esordi, non sono pensati per una società dedita al consumismo sfrenato e ad una crescita incontrollata, ma sono indirizzati verso una società che guarda alla povertà, al riciclo, al pluralismo e all’adattabilità e alla condivisione, come modello.

A differenza di molti colleghi, ha sempre rivolto la sua attenzione verso gli ultimi, immaginando come poter costruire un mondo migliore per tutti, rimanendo sempre coerente con la sua anima e con la sua ricerca. Il suo è stato un lavoro continuo proiettato alla creazione di un “luogo possibile”, in equilibrio tra la realizzazione di un progetto e il desiderio di unarealtà altra.

L’eredità che ha lasciato al mondo dell’architettura è grandissima, affidandoci il compito di adottare una serie di principi architettonici con i quali poter comprendere ed interpretare facilmente e operativamente le continue trasformazioni che caratterizzano la nostra contemporaneità. 

Il suo pensiero è sempre stato in continua trasformazione, costantemente dinamico, consapevole dal valore effimero della solidità della materia, aprendociad una visione del mondo verso prospettive libere da schemi precostituiti o progetti normativi.

Nei suoi lavori non abbiamo una realtà costituita da algidi oggetti chiusi, come fossero delle “definizioni di principio”. Al contrario, egli preferisce tracciare delle linee sottili che ci indicano una direzione possibile, lasciando libera la strada all’imprevedibile.

È proprio su questi principi che dagli anni ‘60 fino al 2020 ha costruito la sua idea fluttuante della Ville Spatiale, una città che concilia l´individuale e il collettivo, sorvolando il territorio, i suoi spazi, le sue macerie, i suoi monumenti, le sue infrastrutture.

La sua Ville Spatiale è una città che si forma come una sorta di nuovo firmamento, un cielo che ogni cittadino abita e disegna secondo le proprie esigenze. Il suo è un invito poetico a colonizzare il cielo, introducendoci verso una architettura non necessaria che si dissolve nell’aria, e in essa e con essa si confonde.

Come nuvole ingabbiate, la sua città cambia forma continuamente, senza un disegno prestabilito o progettato. 

Invece nelle concatenazioni spaziali dei suoi Space Chain e nelle sua idea di Architecture without building, ciò che Friedman mette in scena è l’essenza concettuale di un’architettura come strumento spaziale privo di monumentalità, mobile, aperto e partecipativo. Un dispositivo di condivisione e di comunicazione, che vuole interpretare il contemporaneo mondo immateriale e gassoso dei nostri giorni. 

Nella sua precarietà, difatti, con questi e altri progetti Friedman supera il freddo protagonismo monumentale e spettacolare degli edifici istituzionali, proponendo un’architettura come cornice subordinata alla vita e alla creatività umana costruita con l’uso di elementi poveri ed evanescenti. 

Quella che introduce Friedman è una nuova forma di relazione tra materico e immaterico, legata alla politica della condivisione democratica dello spazio. Senza dubbio il suo è un pensiero e un atteggiamento verso la realtà e l’architettura prettamente gassoso, che dà vita per l’appunto a un universo spaziale dinamico, capace di modificare lo spazio in ogni situazione possibile, che ritroviamo anche all’interno della teoria dell’Architettura Gassosa.

Sono forse queste ultime visioni di Friedman una possibile strada con la quale indagare una concezione del pensare e fare l’architettura del nostro prossimo futuro prossimo? Io penso di si! Le sue proposte, visto lo sviluppo delle nuove tecnologie e la profonda trasformazione sociale che stiamo vivendo, risultando oggi dei modelli possibili, se non necessari, per comprendere la nostra società. 

Il maestro ci ha lasciato, ma rimarrà per sempre una guida per molti architetti e artisti contemporanei, perché insieme e grazie a lui possiamo immaginare e costruire un mondo nuovo più giusto e democratico.

Emmanuele Lo Giudice

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