L’importanza di chiamarsi Enrico (Astori)

«Ho fatto ciò che mi piaceva, ho prodotto oggetti che avrei voluto acquistare o regalare, ho frequentato persone che stimolavano la mia curiosità e ho desiderato di lavorare con loro. Driade non è mai stata un obiettivo ma un mezzo, uno strumento di conoscenza. Vedo Driade come uno scrigno, o un’arca che raccoglie le bellezze del mondo in attesa del diluvio».

 

Interni del negozio Driade in via Manzoni a Milano, ph. ©Francesco Bolis.

 

Designer, giornalisti, fotografi, artisti e amici si sono riuniti l’11 maggio nel Salone d’Onore di Triennale Milano per ricordare Enrico Astori, mancato nel 2020 durante la prima fase del Covid, co-fondatore di Driade insieme alla sorella Antonia e alla moglie Adelaide Acerbi.

Moderata da Fulvio Irace, la serata L’importanza di chiamarsi Enrico ha visto i contributi di Cristina Morozzi, Tom Vack, Linde e François Burkhardt, Rodolfo Dordoni, Paolo Rinaldi, Sergio Buttiglieri e molti ancora, anche in collegamento video come Philippe Starck, Óscar Tusquets, Flavio Albanese e Marva Griffin.

 

 

La seduta del 1985 Von Vogelsang di Philippe Starck.

 

Il design per Astori non era (solo) un prodotto: era la via per aspirare all’opera d’arte totale, di cui Driade è stata la partitura più fedele.

Compiendo il salto da produttore a editore, l’imprenditore maturò tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta un capitolo inedito della creatività internazionale. Il catalogo Driade era sterminato ed eclettico, dai vetri di Bořek Šipek ai primi arredi di successo di Philippe Starck fino ai sistemi Oikos di Antonia Astori, definiti, non a caso, «le ossa della Driade».

Come ha ricordato Flavio Albanese: «Era un demiurgo che amava fare un rito, quello delle connessioni impossibili. È riuscito a mettere insieme gli apparenti opposti con grande leggerezza. Mondi opposti che si incontravano: il nord borghese e il profondo sud, l’Occidente e l’Oriente, il tutto con la sua eleganza innata».

Enrico Astori voleva creare un mondo magico per le persone che amava. Dalle parole di chi lo ha ricordato (e amato) non possiamo non credere che ci sia riuscito.

 

La poltrona Suki, progettata nel 1987 da Toyo Ito, è un doppio filare di rete d’acciaio distanziato da numerose molle.

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