Cloud-to-Ground, la riflessione del Padiglione di Israele su reti e data center

Li pensiamo leggeri e impalpabili come una nuvola, ma l’enorme quantità di dati che viaggia in fibra ottica alla velocità della luce, per trasformarsi nello streaming dell’ultimo film, nelle spam che riempiono le caselle di posta, nelle storie di Instagram e nel biglietto del prossimo volo, viene elaborata nei black box dei data center dove milioni di server assorbono enormi quantità di energia, cui si somma quella necessaria per il raffrescamento degli ambienti che li ospitano.

Oggi i data center sono i centri nevralgici del potere. E sono tutti privati. Sono inaccessibili come il padiglione di Israele ai Giardini che Oren Eldar, Edith Kofsky e Hadas Maor, curatori della mostra Cloud-to-Ground, quest’anno hanno sigillato, per aprire un discorso sulla realtà dei data center in Israele, dove Google e Amazon stanno costruendo data center per il nuovo progetto governativo Cloud Nimbus che trasformerà il Paese in una Cloud Region.

 

Ph. ©Daniel Hanoch

 

In posizione strategica tra Europa e India, nel deserto israeliano Google sta posando anche il cavo infrastrutturale Blue-Raman, che già collega già Israele e l’Arabia Saudita.

 

Israele, Bnei Zion data center, 2022, photo: Maor Chay & Omer Shemer, courtesy of Serverfarm

 

È la nuova rotta commerciale illustrata nella mappa fotoincisa esposta sul retro del padiglione, nel cortile, insieme a quelle storiche  – la Via Maris lungo la costa, la Strada dei Re lungo i monti della Giordania, la via dell’incenso – fisicamente pressochè invariate nel corso del tempo ma il cui uso è mutato al cambiare dei governanti che si sono succeduti, testimoniando in questo modo la forza e allo stesso tempo la fragilità delle infrastrutture.

 

La mappa fotoincisa delle reti infrastrutturali storiche che attraversano Israele, cui si sovrappongono le nuove reti infrastrutturali in fibra ottica (ph. ©Daniel Hanoch).

 

Insieme alla mappa, cinque sculture riproducono tipi ricorrenti di vecchie centrali telefoniche, privatizzate e via via demolite o trasformate nei nuovi hub del capitalismo dell’informazione. Nell’installazione ognuna delle sculture, modellate in cemento ma cave, emette un suono unico, basato su sample originali registrati nei rispettivi edifici. Se evocano le vecchie centrali telefoniche pubbliche, destinate a scomparire in tutto il mondo, quei suoni astratti segnano anche il tono delle solitudine contemporanea che l’iperconnessione 24/7 sembra acuire.

 

Orientalism (arch. Ya′akov Stoler, 1991) e Fortress (arch. Amizur Porat, 1984) due dei modelli in scala 1:50 in cemento esposti nel cortile del padiglione di Israele (p. ©Daniel Hanoch).

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